Meglio regnare all’inferno

Mario Arturo Iannaccone- Meglio regnare all’inferno

L’irresistibile ascesa dei serial killer nel cinema, soprattutto americano, con 1 film nel 1927 fino a 50 film nel 2012 (e 24 già previsti nel 2018) è oggetto di indagine nella nuova inchiesta dello storico e giornalista culturale Mario Arturo Iannaccone, nel saggio Meglio regnare all’inferno. Perché i serial killer popolano il cinema, la letteratura e la televisione, edito da Lindau.
«Lunga e impervia è la strada che dall’inferno si snoda verso la luce» è il messaggio che John Doe (come dire l’uomo qualunque) l’immaginario assassino seriale del notissimo film Seven (1995 – diretto da David Fincher) fa recapitare al giovane e impulsivo David Mills, il detective che indagherà sul caso che da lì in avanti diventerà una sorta di rivisitazione sadica e alla Grand-Guignol dei sette peccati capitali. Tutte le macabre esecuzioni inscenate nel film hanno il duplice scopo di punire e di dichiarare, punire i peccatori – il killer si erge a giudice, come ogni credente, secondo la gerarchia semantica del film, non esplicita, eppure manifesta – e dichiarare la propria diabolica elezione: meglio regnare all’inferno, infine. L’assassino è descritto come un credente, per cui sa esattamente che il paradiso gli sarà precluso dopo ciò che ha fatto, ma non importa, perché la legge morale, come direbbe san Tommaso d’Aquino, è totalmente ribaltata, per cui non sussiste più una partecipazione razionale dell’uomo al piano legislativo di Dio-Creatore, piuttosto i killer seriali (e formati possibilmente in una riconoscibile scuola religiosa) diventano epigoni satanici che si compiacciono di solidarizzare con il piano distruttivo del Diavolo, l’anti-creatore, in un immaginario distorto, sogguardante il bene come se fosse un qualcosa di distante da qualunque codifica religiosa; il bene è altrove.

Partendo da una straordinaria e impressionate analisi dei casi reali dell’assassinio compulsivo, Mario Iannaccone

John Doe – serial killer in Seven

ricostruisce un’immagine dell’inferno in terra, l’estetica del male attualizzata nella terrificante e maniacale – quanto reale purtroppo – realizzazione di omicidi, manifestazione di un’incapacità totale di controllo di pulsioni quasi ancestrali, per cui uomini, apparentemente normali, sono diventati pluriomicidi, esecutori spietati di sconosciuti malcapitati, o di padri, madri, coniugi e figli, collezionisti perversi, celebranti in rituali raccapriccianti e inclassificabili.

CSI – scena di un’autopsia

Ma perché questo orrore, in luogo di essere fuggito, è diventato così interessante agli occhi dei media  in nome di un disumano forsan et haec olim meminisse iuvabit, normandosi in una forma di spettacolo necroculturale ed entrando in un numero sempre più notabile di film, serie televisive, programmi (come non pensare ai contenitori pomeridiani che si addentrano nelle pieghe della morte con la naturalezza – e una sorta di inconfessabile sadismo – delle chiacchiere da salotto)? Dopo una prima esposizione di fatti reali, lo studioso si addentra nel riflesso mediatico del fenomeno, analizzando il piano dei significati e dei simboli, e dimostrando come i serial killer, e le macabre vicende collegate, siano diventati strumento di una propaganda precisa, e lo fa analizzando il fenomeno dal punto di vista antropologico, sociologico, psicologico e politico, riproponendo non semplicemente il senso dell’omicidio seriale, ma la sua rappresentazione, come forma sottilissima di comunicazione ideologica indirizzata allo scopo di «instaurare un clima» scrive l’autore, un clima in cui, evidentemente «Il sangue versato nella finzione viene usato per gestire le emozioni e manipolare le menti».

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