Lost e la non-società contemporanea

È il 22 settembre 2004. L’aereo di linea 815 della Oceanic Airlines, decollato da Sydney verso Los Angeles, precipita su un’isola sconosciuta. Ci sono quarantotto superstiti. La prima inquadratura di tutta la Serie è su Jack Shephard, un attraente medico con l’aria da ex militare. Nelle iridi perplesse dell’uomo, dilatate dalla paura, si riflettono, grazie all’abile gioco di telecamera, le chiome di alberi smossi dal vento. Il tutto è immobilizzato in un silenzio ovattato, interiore più che esteriore. Poi, il nostro torna in sé, riacquista il senso della propria presenza nel mondo, probabilmente realizza di essere ancora vivo, di essere scampato da quello che presto scopriamo essere il terribile disastro aereo che ha coinvolto lui e gli altri protagonisti della serie.

Il primo sguardo

Nei primi dieci minuti abbondanti gli spettatori si aggirano insieme a Jack tra le lamiere e i resti dell’aereo; fluttuano come lui sospesi tra incubo e realtà; sostano riottosi a un passo da cadaveri fatti a pezzi e dalle esistenze che lo shock ha lacerato, strappandole via dalla comodità di un viaggio programmato e desiderato. C’è chi urla, chi piange, chi si alza sbigottito, chi tace ottenebrato dall’orrore o dal panico. Ma Jack – il cui cognome Shephard vuol dire pastore – prende in mano la situazione e inizia ad avviare la storia vera, dopo l’esordio spaventoso, radunando le “pecorelle smarrite”.

Lost è una delle serie televisive più amate e discusse della storia delle televisione, non solo americana; una delle più costose in assoluto e una delle più straordinariamente lontane dalla comodità di costruzioni narrative identificabili e confortanti. Lost è l’Isola, personaggio con pari dignità degli altri, ed è ciascun superstite. Lost è anche ciascun spettatore, perché tutta la serie è una sorta di mappa al contrario, una direzione fornita non per trovare una meta, un approdo sicuro, bensì per smarrirsi.

I nuovi a-social

Ben intenso, il grande Alfred Hitchcock (1899-1980) ci aveva già avvisati, aveva già predisposto una narrazione alla rovescia, lo smarrimento diegetico, lo sconfinamento oltre la coscienza e il comfort di storie accettabili. J. J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, padri di Lost, ne seguono l’esempio, e riescono a «spaccare emotivamente» lo spettatore, alimentano il suo smarrimento, lo pongono davanti al dubbio senza mai fornire delle soluzioni solide, forniscono il profilo di personaggi ibridi e mutevoli, mai coerenti nel bene e nel male. E questo perché Lost, in fondo, è paradigma della non-società contemporanea, un mondo postmoderno frammentato, in cui ogni regola è stata delegittimata da qualsiasi discorso univoco, in cui l’ambiguità, il controsenso, i paradossi, le incertezze sono diventate la base liquida su cui fondare le relazioni (perfino quelle sessuali).

Il ritmo della narrazione visiva è scandito dal resoconto inattuabile di una successione logica che non c’è, non c’è rassicurazione; ci sono l’inverosimile e l’instabilità. Lost non ha affascinato milioni di spettatori per le risposte, ma per l’empatia, l’affinità con personaggi smarriti, smarriti già prima di precipitare, già nelle loro vite, quelle che li hanno condotti sull’Isola che li accoglie nella sua non-società, nella sua imperscrutabile coscienza, nei suoi dubbi, nella sua rappresentazione della umanità postmoderna, povera di ogni valore e ricca di tutte le nuove inquietudini dell’individuo solo al centro del mondo con i propri desideri, relativi alla sua singola esistenza che diventa un’isola solitaria, ignota e a-sociale.

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