Non di solo fantasy visse John Ronald Reuel Tolkien e infatti è considerato uno dei più importanti autori della letteratura del Novecento. Il suo capolavoro – Il Signore degli Anelli – è ormai ben oltre la vetta delle classifiche. Capostipite del genere high fantasy (o epic fantasy) e perseguitato da tutta una serie di risvolti ludici, piuttosto lontani dalla reale impianto filosofico che soggiace al mondo fantastico ideato per il libro, sopravvive alle mode, alle versioni cinematografiche e alle sfumature di grigio; anzi nei romanzi di Tolkien il grigio non è proprio previsto: si gioca di bianco e di nero; di Bene e di Male.
Il Signore degli Anelli non è solo una storia fantasy, ma è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica, come scrive Tolkien nella lettera del 2 dicembre 1953 a padre Robert Murray: notizia per nulla sorprendente se si considera appunto la vita del suo autore, plasmata da una profonda fede ereditata dalla madre, convertita dalla religione protestante della sua famiglia d’origine.
Nel saggio Tolkien. Il mito e la grazia, (Milano, Àncora, 2001) Paolo Gulisano – scrittore milanese, uno dei più apprezzati cultori e critici italiani di letteratura fantasy e, in particolare, dell’opera di Tolkien – si sofferma su quei temi che sono stati fonte di ispirazione per lo scrittore: l‘amore per la natura e quello per le fiabe, che lo portano già adolescente a scrivere storie di elfi; l’esperienza drammatica della prima Guerra Mondiale, dove conoscerà l’orrore della violenza, ma anche il coraggio e lo spirito di sacrificio dei soldati; spunto per delineare i personaggi degli hobbit.
Partendo dal grande tema della ricerca, del viaggio – caro a tutta la letteratura epica – Gulisano fa notare che, mentre abitualmente il viaggio è teso alla conquista di qualcosa, nell’opera di Tolkien lo scopo è quello di distruggere un oggetto prezioso così come per analogia, nella vita di ogni giorno tra prove, tentativi, fallimenti e tentazioni l’uomo cerca di liberarsi dal peccato.
Gli stessi protagonisti, gli hobbit, nella loro semplicità, rappresentano l’uomo comune, che combatte con le armi della fedeltà, dello spirito di sacrificio, dell’amicizia, dell’accettazione della propria vocazione e della fiducia nella Provvidenza.
L’epica lotta del Bene e del Male è tema centrale del racconto, ma non mancano riferimenti alla Speranza e alla Grazia, intese proprio nel loro significato cristiano. Al tema della Grazia Gulisano dedica un intero capitolo, per dare spazio a riflessioni sulla Provvidenza, sull’aiuto soprannaturale che Dio concede alle creature per guidarle verso la salvezza, sulla conversione, sulla misericordia, sull’umiltà, la virtù tipica degli hobbit, che permetterà loro di portare a compimento la missione.
Tolkien affermò che: «L’importanza di un mito non può esser facilmente messa per iscritto tramite ragionamenti analitici».
In quale maniera, dunque, Il Signore degli Anelli parla di mito, posto che ha di certo una sua mitologia? Se si prende la definizione di Northrop Frye per cui l’eroe è un essere divino e la sua storia sarà un mito, allora si può giustificare il rango mitico del romanzo prendendo in considerazione l’aspetto divino di Gandalf; degli elfi, che sono immortali e via così; ma dal mito andiamo nella teologia vera e propria, quindi con significati molto più specifici, quando pensiamo a Frodo, che possiede tratti modellati su quelli cristiani: pietà e compassione.
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