«Se vieni da me, salti nell’abisso».

«Se vieni da me, salti nell’abisso» è il monito racchiuso nel perpetuante e misurato confine di una lettera (13 giugno del 1920) dello scrittore e filosofo boemo Franz Kafka (1883-1924) a Milena Jesenskà (1896-1944), giornalista, scrittrice, traduttrice nata a Praga e morta per insufficienza renale nel campo di concentramento di Ravensbrück, nel 1944. È qui che Milena, passeggiando con la scrittrice Margarete Buber-Neumann (1901-1989), racconta la storia di Gregor Samsa, un uomo che una mattina si sveglia nel corpo di uno scarafaggio; l’autore, spiega all’amica detenuta con lei, è Franz Kafka, un giovane scrittore di lingua tedesca del quale lei ha tradotto alcuni racconti in ceco. Margarete non sa nulla di lui; Milena invece ne è stata l’amante di carta.

L’INCONTRO

 

Milena Jesenskà

I due si incontrano all’inizio degli anni Venti in un caffè di Praga. Milena è diventata la traduttrice, dal tedesco al ceco, di alcuni racconti di lui; poi inizia lo scambio di lettere. Al tempo, Kafka vive nella pensione Ottoburg di Merano, dove combatte con la tubercolosi, lei, invece, nella sua casa viennese, con il marito, lo scrittore ebreo Ernst Pollak (1886-1947), anche lui di Praga, ben noto a Kafka stesso e che, probabilmente, è stato il contatto fra i due. Le prime lettere sono ossequiose e professionali, vagamente distaccate, ma poi il tutto esce dai binari dell’autocontrollo e le parole diventano quelle fra due «anime intime», o meglio, le lettere di Kafka si trasfigurano in fuoco letterario, bruciando di un ardore indefinito e potente, di lei, invece, non abbiamo nulla, non possiamo interpretare risposte, se non indirettamente da ciò scrive, nel frattempo, all’amico di entrambi Max Brod (1884-1968), e dove esterna per lo più preoccupazione per lo stato psico-fisico di Kafka. Forse lo ha inteso anche lei che quello del geniale scrittore non è semplicemente amore, è qualcosa di diverso, di più elevato e al tempo abissale; in qualche modo contaminato, irriducibile, incenerente eppure apparentemente indispensabile, intenso e «dannato». Soprattutto è un amore di carta. I due, infatti, si vedono di persona solo quattro volte, il resto avviene «a parole». Kafka sente che lei lo comprende, che può entrare negli «abissi», appunto, del suo pensiero narrativo; Milena, però, è una donna con un vita complicata e resa quasi inverosimile dalla situazione economica e familiare.

UN ANGELO SENZA ALI

 

Ernst Pollak
Ernst Pollak

In casa dei coniugi Pollak si vive, infatti, di stravaganti espedienti sessuali, si fa uso di cocaina, soprattutto in compagnia della cerchia di intellettuali che i due frequentano nella corrosiva atmosfera dei caffè letterari viennesi. Milena è eccentrica e disinibita, ma per il «castigatissimo Kafka» è «un angelo, l’angelo degli ebrei», eppure a stento la ricorda: «Mi viene in mente [le scrive dandole del Lei] e non riesco a ricordare nessun preciso particolare del Suo viso. Vedo ancora soltanto come Lei si allontanò poi tra i tavolini del caffè, la Sua figura, il Suo abito». Le loro sono due identità che navigano nelle lettere dello scrittore, due figure che si inseguono, si scompongono a metà tra la realtà e il piano onirico tipico della narrativa kafkiana, e, di fatto, egli definisce la loro relazione «un susseguirsi di metamorfosi in cui si riscopre l’altro come parte di sé». A tratti evapora ogni confine d’anima fra i due: «Ieri ho sognato di te. Non ricordo quasi più i singoli fatti, so soltanto che di continuo ci trasformavamo l’uno nell’altro, io ero tu, tu eri io».

LE OSSESSIONI DI CARTA

 

Kafka
Franz Kafka

È il modo in cui Kafka insegue la realtà quando scrive, è il suo reiterato sconfinamento nell’incubo – o nel sogno – al quale però dà argine con il proprio senso di colpa, sfamato dalla la convinzione di essere una sorta di eterno esule mostruoso, un senza patria, uno sradicato, un uomo laido e pavido: «Milena, non si tratta di questo, tu non sei per me una signora, sei una fanciulla, non ho mai visto nessuna che fosse tanto fanciulla, non oserò porgerti la mano, fanciulla, la mano sudicia, convulsa,unghiuta, incerta e tremula, cocente e fredda». Kafka ha paura di sprofondarla nel buio delle proprie ossessioni. Difficile comprendere fino in fondo il pensiero di Milena a riguardo. Kafka si avvicina e si allontana da lei, passa i limiti e retrocede: «Il rapporto fra te e me, (tu appartieni a me, anche se non dovessi vederti mai più), lo conosco in quanto non sta nel territorio confuso dell’angoscia, ma non conosco affatto il rapporto tuo verso di me, questo appartiene tutto all’angoscia. E neanche tu mi conosci Milena, lo ripeto). Ciò che accade è per me qualcosa di mostruoso, il mio mondo crolla, il mio mondo risorge, vedi come tu (questo tu sono io) ne possa dare buona prova. Non mi lagno del crollo, il mondo stava crollando, mi lagno del suo ricostruirsi mi lagno delle mie deboli forze, mi lagno del venire al mondo mi lagno della luce del sole. Come continueremo a vivere?»

ABISSI LETTERARI

 

Dora Diamant
Dora Diamant

Infine, quando lui comprende che Milena è «solo poesia pura, musa ispiratrice della ricerca di una solitudine per scrivere» allora diviene conscio del fatto che la loro relazione non durerà: la sua vera paura è di sprofondarla nel buio delle proprie  ossessioni. Del resto, Milena non se la sente di abbandonare Pollak. La «relazione di carta» smette di avere un senso e le parole si perdono. Il loro ultimo incontro avviene nel giugno del 1923; poi segue il glaciale inverno berlinese e Kafka condivide gli ultimi momenti di vita con la fidanzata Dora Diamant (1898-1952), che gli resterà accanto fino alla fine. Come detto, delle lettere di Milena Jesenskà a Kafka non resta nulla, ma permangono le parole che scrive per il necrologio di lui, dove svela che «il suo mondo era popolato di demoni invisibili che annientano e dilaniano l’uomo privo di difese. Egli era troppo perspicace, troppo saggio per poter vivere, troppo debole per poter combattere con la debolezza degli uomini nobili e belli che non rifiutano la lotta per timore di incomprensioni, malvagità e menzogna intellettuale», e ancora «Egli era un uomo e un artista dotato di una coscienza tanto vigile che avvertiva qualcosa anche là dove gli altri, meno sensibili di lui, si sentivano al sicuro».

 

Forse ciò che Kafka aveva avvertito era che il bruciante amore per la giornalista ceca non avrebbe mai avuto esito nella vita reale, ma, pure, grazie ad esso, lettera dopo lettera, parole dopo parola, egli aveva capito che il loro rapporto era per lui una salvezza letteraria, più che un amore proibito e impossibile, una scala discendente, che gli aveva permesso di inabissarsi in se stesso per trarne alla luce letteratura: «La mia più grande forza», scrisse infine, «è la paura».

 

Bibliografia

Milena Jesenskà, Necrologio di Franz Kafka, 6 agosto 1924.
Franz Kafka, Lettere a Milena, Mondadori, 2017.
Margarete Buber-Neumann, Milena. L’amica di Kafka, Adelphi, 1999.

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