Duecento colpi di mitra

«Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano», così ripeté più volte il magistrato antimafia Paolo Borsellino (1940-1992) nel  discorso del 28 luglio 1986, tenuto a Palermo, in occasione dell’anniversario dell’assassinio del commissario e vice questore Antonio “Ninni” Cassarà (1947-1885), e del suo agente di scorta Roberto Antiochia (1962-1985), poco più che ventenne, uccisi da un commando mafioso, sette uomini armati di mitra e kalashnikov: duecento colpi in pochi istanti. Paolo Borsellino sapeva bene cosa covava il potere mafioso; conosceva già il proprio destino e quello di chi era con lui a combattere lungo la frontiera antimafia, una frontiera di sangue.

L’omidio Cassarà

Ninni Cassarà e l’agente Antiochia

L’omicidio Cassarà avvenne in un quartiere residenziale di Palermo, il San Lorenzo, a due passi dallo stadio La Favorita, sotto l’abitazione del commissario. Dieci giorni prima, era stato assassinato Giuseppe Montana (1951-1985), capo della sezione “catturandi”, freddato al molo di Porticello.

L’omicidio di Cassarà fu di quelli ferocissimi. I killer, appostati nella casa di fronte, spararono da trenta metri. Fu un agguato preparato minuziosamente, da professionisti.  Un’auto civetta, una Fiat Ritmo 70 color aviazione con targa falsa PA 701439, attese a lungo il segnale, per bloccare la strada.  Cassarà arrivò alle 15,30, imboccò lo stradino verso il numero 81, in via Crocerossa, subito, la Ritmo si piazzò proprio a metà dell’ingresso, di traverso, per impedire l’accesso ad altre vetture.

Strage di Pizzolungo

Contemporaneamente dalle finestre delle scale interne del palazzo 77 spuntarono tre canne corte di mitra. Laura Cassarà, affacciata al secondo piano della loro abitazione, salutò con la mano Ninnì, e lui ricambiò, scese dall’automobile, accompagnato dall’agente Antiochia, e, poi, entrambi si bloccarono nell’udire un rumore improvviso: per cinque lunghissimi secondi furono investiti in pieno dalle raffiche furibonde di mitragliatrice, e si accasciarono a terra, uno accanto all’altro. [Archivio La Repubblica, Duecento colpi di Kalashnikov, 7 agosto 1985].

Il giorno del funerale del commissario, i poliziotti si rivolsero ai magistrati del pool antimafia, Giovanni Falcone (1939-1992) e Antonio Caponnetto (1920-2002), presenti alle esequie: «siamo in guerra», dissero, «e qualcuno non l’ha capito e non lo vuol capire».

La normalizzazione

Borsellino e Ayala

Nel suo discorso del luglio 1986, Borsellino parlò di «paravento della normalizzazione», dietro cui si celava il rischio di una smobilitazione del comparto antimafia. Diversi anni più tardi, Giuseppe Ayala, compagno di lotta di Falcone e Borsellino, dichiarò che i «segnali della cosiddetta normalizzazione erano imbarazzanti», essa era cioè volta più a controllare chi combatteva contro la mafia, tanto da arrivare a sottrarre documenti importanti al lavoro dei magistrati.

Ma, poi, nel 1988 vi fu il caso dell’omicidio del sindaco democristiano Giuseppe Insalaco (1941-1988), quando quella che Ayala chiamò «agenzia funebre incaricata di trafugare i documenti della vittima» fallì i tentativi di occultamento, consentendo così agli inquirenti di ritrovare un diario in cui erano riportate pesantissime accuse nei confronti di chi gestiva il potere, denunciando un intenso e operoso intreccio tra mafia e politica.

Il «memoriale Insalaco»

Il cosiddetto «memoriale Insalaco» fece tremare i potenti di Palermo, che

Giuseppe Insalaco, ucciso nel 1988

però adottarono immediatamente le dovute contromisure, spiegò Ayala nei suoi resoconti sui fatti dell’epoca. Il capo della Squadra Mobile di Palermo, Saverio Montalbano, venne invitato a depennare dai documenti di indagine frasi come «sistema di potere politico-mafioso». Subito dopo, lo stesso Montalbano, impegnato assiduamente nell’inchiesta Insalaco e nell’analisi del memoriale, venne trasferito alla direzione di un reparto di periferia e sostituito da un nuovo dirigente. Identica sorte toccò a tutti i funzionari che indagavano sul legame mafia-politica.

Ai magistrati impegnati nell’antimafia toccò il moltiplicarsi delle minacce dirette e indirette di morte, che culminarono nell’estate del 1992, con la morte di Giovanni Falcone, della moglie Francesca, di Paolo Borsellino e di otto giovani delle loro scorte.

 

Bibliografia

Giuseppe Ayala, Chi ha paura muore ogni giorno. I miei anni con Falcone e Borsellino, Oscar Mondadori, Milano settembre 2009.

Archivi Repubblica e Corriere, anni 1985-1992.

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