«Su in alto costruirò il mio trono
Fredda e tremenda sarà la sua vetta.
Il terrore superstizioso ne sarà il baluardo,
Suo ministro, l’angoscia più nera».
Sembrano i versi di uno dei poètes maudit di Paul Marie Verlaine (1854-1891), quei poeti maledetti preannunciati da Les Fleurs du Mal di Charles Baudelaire (1821-1867), che ne anticipò l’oscurità e le ossessioni; quei poeti che diedero un volto cupo e tormentato alla lirica tra i due secoli Ottocento e Novecento. In essi pulsa il cuore ambiguo e oscuro del Romanticismo gotico, con le sue immagini riflesso del titanico disagio nei confronti della società; un disagio che divenne isolamento mentale, ribellione, provocazione. Un inno alla vita senza regole, una disobbedienza civile che sfociò, per molti artisti, nell’uso di alcol e droghe, e in esperienze autodistruttive.
Il trono di Karl Marx
Eppure no, l’autore dei versi non fu un poeta maledetto, ma Karl Marx (1818-1883), il quale li scrisse durante la giovinezza (Marx-Engels, Gesamtausgabe (MEG), vol. 1, pp. 182-183). E non fu un sentimento abbandonato, non sepolto, non dimenticato, perché nel Manifesto del Partito Comunista (1848) ancora ne si coglie il riverberare inquieto e inquietante «[…] il comunismo liquida le verità eterne, liquida la religione, la morale, e contraddice il corso della storia per come si è finora sviluppato». È forse questo l’alto trono? Marx lottò con una vita di stenti e dolore, perdendo per suicidio molti dei suoi cari, tra cui due figlie. Chissà, probabilmente per questo, con eclatante e fosca sfiducia in Dio e nella vita, arrivò a scrivere «Il segreto della Sacra Famiglia è la famiglia terrena; per far scomparire la prima, è la seconda che deve essere criticata teoricamente e sovvertita nella pratica» (Marx-Engels, op. cit., vol. 3, p. 6).
L’angoscia nera del fronte russo
Solo pensieri ombrosi di un uomo tormentato dalla sofferenza familiare ed economica? Può darsi, però queste sono poi diventate le basi teoriche su cui costruirono i loro distruttivi imperi i dittatori e i rivoluzionari comunisti nel Novecento – e non solo. Ecco che quei versi sembrano infine echeggiare sopra il ricordo dei gulag e delle piane siberiane, lungo uno dei fronti che fu fra i più terribili della seconda guerra mondiale: il fronte russo, con le sue vette fredde e tremende, spazzate dall’angoscia più nera che i soldati, morti poi a milioni, avevano mai conosciuto.
All’atroce ritirata di Russia (dicembre 1942 – gennaio 1943) lo scrittore Eugenio Corti, che vi partecipò come tenente, dedicò un libro di memorie I più non ritornano (1947), un resoconto in forma di cronaca che non lascia spazio a dubbi sull’orrore cui solo alcuni soldati sopravvissero, un neorealismo letterario che è testimonianza ancora viva di quanto accadde.
«La pista, tuttora in salita, era larghissima e bianca. Quando, nonostante il flagello inenarrabile del vento, uno alzava gli occhi a guardarsi intorno, intravvedeva ancora, lontano sulla destra, il formicolare della colonna degli uomini tra le gobbe nevose. A sinistra boschi radi e spogli. Raggiunsi infine la pianura soprastante. Passammo davanti ad alcune postazioni campali d’artiglieria, i pezzi […] erano puntati verso di noi».
Bibliografia
Paola Scaglione, Parole scolpite. I giorni e l’opera di Eugenio Corti, Edizioni Ares, 2002.
Marx-Engels, Gesamtausgabe (MEG), vol. 1, vol. 3.
Eugenio Corti, I più non ritornano. Diario di ventotto giorni in una sacca sul fronte russo (inverno 1942-43), Mursia, 2004.
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