Negli anni Cinquanta, l’identificazione precisa del virus della spagnola, classificato come H1N1, divenne l’orizzonte medico-scientifico per capire chi fosse realmente l’assassino che aveva causato, secondo una spaventosa stima, quasi cento milioni di morti tra il gennaio del 1918 e il dicembre del 1920, con circa cinquecento milioni di casi totali. Cifre talmente drammatiche che nel primo anno della pandemia l’aspettativa di vita negli Stati Uniti si abbassò di circa dodici anni.
Tipi e sottotipi
Benché all’inizio gli studiosi avessero ipotizzato, con un ampio margine di sicurezza, una possibile derivazione del virus umano da quello suino (una sorta di trasfezione), per esserne certi servivano prove e, soprattutto, bisognava individuare la variante genetica che aveva reso la malattia tanto micidiale; variante che, forse, aveva generato un mortale sottotipo. I virus influenzali dannosi per l’uomo sono infatti distinti nei tipi A, B e C sulla base di alcune caratteristiche specifiche. H e N, detti antigeni di superficie, permettono di suddividere ulteriormente i virus di tipo A in sottotipi. Solo i sottotipi H1, H2, H3, N1 e N2 – accoppiati H1N1, H2N2 e H3N2 – sono stati però trovati nei virus patogeni per l’uomo, cioè sarebbero gli unici in grado di causare epidemie stagionali o pericolose pandemie.
Sulle tracce del Killer
Per poter arrivare a risposte realistiche, per gli studiosi era necessario riuscire a esaminare da vicino il nemico; era necessario confrontarsi con il Killer in persona, ovvero bisognava reperire campioni per poter studiare nel dettaglio la mutazione che ne aveva causato l’inasprimento patogeno. L’unica via percorribile, per quanto oltremodo avventurosa, sembrò essere quella di recuperare il virus da tessuti che erano stati infettati, per cui bisognava riesumare dei pazienti deceduti.
Questo era il piano, quando nel 1951 il patologo americano Jack Layton, il ricercatore svedese Johan Hulting e il virologo Albert McKee decisero di raggiungere l’Alaska (l’influenza aveva spazzato via quasi il novanta percento degli eschimesi in alcuni villaggi); qui avrebbero cercato di recuperare i resti congelati – e dunque in parte preservati – di vittime della spagnola. Per riuscire nell’impresa coinvolsero anche il paleontologo Otto Geist, costituendo così il gruppo Teller Mission. Geist era in effetti la chiave per ritrovare i villaggi più colpiti e le zone di interesse maggiore per la spedizione, e poteva mettere in comunicazione gli scienziati con i nativi eschimesi evitando intoppi diplomatici, dato che non era affatto semplice ottenere il permesso di toccare le tombe dei morti.
Ad ogni modo, giunti sulla penisola di Seward (la più occidentale dell’Alaska), dopo aver individuato dei siti e aver intavolato nel modo più efficace le trattative con la gente del posto (come per esempio la scusa di poter vendicare lo spirito dei defunti e dare loro pace), in nome della Scienza aprirono una fossa comune preservata dallo spesso strato di ghiaccio (permafrost) e prelevarono campioni di polmoni, reni, milza e tessuto cerebrale dalle vittime del 1918 che erano rimaste sepolte là per trentatré anni. «Fu una delle più grandi avventure della mia vita», disse in seguito Johan Hulting.
La misteriosa missione Project George
Ma quando Layton traslò questi campioni nello Iowa scoprì che poteva riportare in vita i batteri pneumococchi e il bacillo di Pfeiffer, ma nessun virus dell’influenza. Dato che all’epoca non c’erano tecniche avanzate di analisi del DNA, la sola speranza era quella di trovare il virus ibernato ma vitale, in modo da poter essere risvegliato e coltivato in terreno di coltura adeguato. Cosa che non avvenne.
Contemporaneamente, ma in maniera più nascosta, anche un’altra missione, questa volta guidata e finanziata dall’Esercito USA, il Project George, si stava muovendo sulle tracce del virus Killer, allo scopo di individuarne l’esatta natura e poterlo affrontare con armi più accurate in caso si fosse ripresentato. Almeno questa era la versione ufficiale. Il caso non è mai stato aperto del tutto, ma fu proprio Albert McKee a denunciare le intenzioni poco chiare, gli atti di spionaggio e la mancanza di permessi insiti nel Progetto militare, che comunque non andò a buon fine.
La variante di Taubenberger
Il problema dei frammenti di virus utili alla ricerca venne risolto circa quarant’anni dopo dall’approccio molecolare del virgolo statunitense Jeffery Taubenberger, dell’Armed Forces Institute of Pathology di Washington, negli anni Novanta, quando i filamenti del DNA e il genoma avevano meno segreti per i ricercatori. Taubenberger, specializzato nell’amplificare le sequenze di RNA virali tramite una particolare procedura chiama Polymerase Chain Reaction (PCR), all’inizio pensò che non fosse necessario imbarcarsi in missioni al limite del possibile esplorando l’Alaska in cerca di cadaveri congelati poiché aveva a disposizione l’ampia biblioteca di campioni raccolti negli anni dall’Esercito americano, compresi quelli di alcuni soldati deceduti nel 1918 proprio a causa della spagnola.
Così, il 23 giugno del 1996, Taubenberger, con l’aiuto della collega Ann Reid e di un’esperta di ricostruzione genomica, la dottoressa Amy Krafft, recuperò il virus da un frammento dei polmoni dei soldati Roscoe Vaughn e James Downs, morti il 26 settembre del 1918, e ne estese il sequenziamento, ma ancora non fu sufficiente per guardare in faccia al virus Killer. Così, Taubenberger poté solo pubblicare i suoi studi, che però vennero notati proprio da Johan Hulting, colui che aveva guidato i colleghi della Teller Mission sul permafrost d’Alaska, quarant’anni prima.
Hulting convinse Taubenberger a tornare sui ghiacci e qui, insieme, nell’estate del 1997, recuperarono, in un cimitero di Breving (Alaska), ulteriore e più adatto materiale per proseguire la ricerca. Grazie alla loro spedizione, in pochi anni i ricercatori ricostruirono l’intero genoma del virus influenzale del 1918, che fu inserito in altri virus influenzali potenzialmente innocui, creando ceppi chimerici, e risvegliando così il Killer dal suo lungo sonno. Motivazione ufficiale: studio e prevenzione.
Bibliografia
- Kirsty Duncan, Hunting the 1918 Flu. One Scientist’s Search for a Killer Virus, University of Toronto Press, 1998.
- Pete Davies, Catching Cold: 1918’s Forgotten Tragedy and the Scientific Hunt for the Virus That Caused It, Michael Joseph, 2020.
- Gina Kolata, The story of the great influenza pandemic of 1918 and the search for the virus that caused it, Farrar, Straus and Giroux, 1999.
Condividi: