La guerra che prima nessuno aveva notato, quella in Ucraina, oggi guadagna uno spazio senza precedenti nell’opinione pubblica mondiale (e quindi italiana), ovviamente mediante la costruzione di una precisa architettura di idee; il giornalismo di inchiesta, quello vero, è relegato a poche pubblicazioni difficili da reperire o accantonate da tempo. Immersi in questa risonanza in stile panem et circenses – con il controllo politico incentrato grottescamente su metodi bassamente demagogici – è complesso riuscire a individuare i fatti. Siamo prigionieri, ancora una volta, di quello che il giornalista Sohrab Ahmari definisce, in un interessante articolo (How Not To Think About Ukraine), un «momento mediatico», ordito in modo da suscitare reazioni emotive e poco razionali. L’utilizzo in questi giorni di immagini, video, costrutti e finzioni belliche, in certi casi perfino imbarazzanti per l’evidenza mistificatoria, di quanto accade in campo ucraino è un esempio lampante del come oggi l’informazione sia diventata perlopiù, e scopertamente, manipolativa. Essendo radicata in un atlantismo di annata,  l’opinione pubblica tende a fidarsi della narrazione anti-Russia senza esercitare il benché minimo senso critico; ma i fatti devono avere un peso, non per schierarsi da una parte o dall’altra, bensì per comprendere le reali dinamiche di quel che accade, o almeno provarci, fosse anche per un semplice e puro senso di giustizia. 

ORIGINI DI UN CONFLITTO INVISIBILE

Dati fantasma come la guerra

Da dove viene questa guerra? L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) ha documentato 34.766 vittime della guerra in Ucraina tra il 14 aprile 2014 e il 15 agosto 2017. La cifra include la popolazione civile, i militari ucraini e i membri dei gruppi militanti. Nell’arco del conflitto sono morte almeno 2,505 persone civili, tra le quali 1,382 uomini, 837 donne, 90 bambini e 47 bambine; così come 149 adulti; 298 civili, dei quali 80 erano bambini, sono morti nell’incidente del volo MH17 il 17 luglio 2014. Non si combatte da oggi in Ucraina, la guerra c’è da molto più tempo e questo è un fatto. Interpretare la situazione attuale come un improvviso colpo di mano della Russia non può non essere una mancanza, in certi casi colpevole, dell’opportuno approfondimento. Gli equilibri mutati nel post URSS sono alla base di un riordino dell’assetto mondiale, al quale la Nato, evidentemente, ha voluto imprimere, così come la stessa Russia, una determinata direzione. Per la maggior parte della seconda metà del Ventesimo secolo L’Unione Sovietica ha controllato L’Eurasia dalla Germania orientale al Pacifico, dal Caucaso all’Hindukush, ma dopo il 1991, «la Russia ha arretrato la sua frontiera occidentale a est di quasi mille chilometri, dal confine tedesco alla frontiera con la Bielorussia. In questo modo il potere di Mosca è indietreggiato verso Oriente» [Eugenio di Rienzo, Introduzione, in Gabellini, Ucraina una guerra per procura], segnando così l’andamento politico degli anni a venire.

LE MOSSE STRATEGICHE

Guerre giuste e guerre ingiuste: la memoria corta degli occidentali

Intervenendo in Bosnia dagli anni Novanta, la Nato estese di fatto la propria operatività geopolitica a qualsiasi area geografica del pianeta Terra. L’ambasciatore statunitense Robert E. Hunter disse, all’epoca, che la questione bosniaca, con il successivo intervento degli USA, aveva salvato l’assetto e la credibilità della Nato. L’attacco alle forze serbo-bosniache, reso accessibile anche dall’opinio necessitatis umanitaria sollevata dagli autori dell’intervento per giustificare, come sempre,  l’uso della forza, ebbe, infatti, il merito di rinsaldare l’alleanza atlantica (risolvendone la crisi identitaria del post URSS). Se la scomparsa del nemico sovietico, fattore su cui una parte dell’Europa aveva puntato per disimpegnarsi dall’atlantismo, aveva avuto fino a quel momento un certo peso geopolitico, l’insorgere della questione jugoslava era l’occasione perfetta per giustificare la presenza dell’Alleanza Atlantica e per rinsaldare, grazie al programma Partnership for Peace (Pfp), i legami politico-militari dei Paesi Nato, con la scusa di garantire sicurezza all’area euro-atlantica. Sia la Russia di Boris Nikolaevič El’cin (1931-2007) che l’Ucraina di Leonid Kučma (1938) firmarono l’accordo aderendo al Pfp, anche se il programma era incentrato sulle esigenze Nato.

LA RETORICA ASSOLUTORIA DELL’OCCIDENTE

Il discorso di Blair

La retorica assolutoria dell’Occidente ha sempre cercato di giustificare gli interventi armati della Nato, ne è un esempio il famoso discorso del 23 aprile 1999 con cui Tony Blair (1953), allora Primo Ministro inglese, enunciò i cinque criteri in base ai quali le future operazioni di guerra avrebbero dovuto essere considerate legittime: «[…] La guerra è uno strumento imperfetto per risolvere i problemi umanitari, ma la forza delle armi è talvolta il solo mezzo per trattare con i dittatori» [Blair pledges Balkans aid, CCB], ma solo se è la Nato, o i Paesi a essa annessi, a usarla, la guerra assume dei connotati umanitari. Il potenziamento della Nato, anche e soprattutto dal punto di vista militare, è andato di pari passo con la volontà statunitense di impedire alla Russia di tornare a essere una Grande potenza. Washington non ha mai fatto mistero di avere il desiderio di tenere a bada il gigante russo, non lesinando messaggi piuttosto indicativi rispetto a tale volontà: l’appoggio alla causa separatista Cecena, il rafforzamento della presenza militare Usa/Nato in Asia centrale, la Rivoluzione delle Rose, ovvero il  cambio di potere filo-occidentale in Georgia nel novembre 2003; tra l’altro l’allora neo capo di governo, Mikheil Saakashvili, come detto filo occidentale, oltre a esprimersi immediatamente a favore dell’ingresso della Georgia nella Nato, concesse agli Usa una base militare presso Krtsanisi e «marginalizzò le comunità russofone presenti nelle regioni autonome di Abkhazia, Ossenza del Sud e Agiaria» (Gabellini, p. 79).

GUERRA DI NERVI

Fino al Donbass

Ma l’accerchiamento della Nato non sarebbe finito qui, anzi. Le navi da guerra Usa iniziarono a pattugliare i mari strategici, per la Russia, (Mar Nero e Mar Baltico) e armi militari americane vennero trasferite dalla Germania ai nuovi impianti prontamente posizionati in Polonia, Romania, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria, cioé intorno ai confini russi. All’epoca l’Ucraina cercava di dividersi fra Russia e Nato. Leonid Kučma cercò di non sottovalutare la tendenza interna filo-russa, ma nemmeno rinunciò agli aiuti economici statunitensi (l’Ucraina segue solo Israele ed Egitto quanto a questo), cui Kiev ebbe accesso in cambio della partecipazione alle operazioni militari in Bosnia e Kosovo. La storia è molto lunga e complessa, proprio per questo non è possibile riassumerla qui in modo esaustivo, del resto non è l’intento di questa riflessione. Il conflitto armato in Ucraina non è venuto fuori dal nulla; e la sua ferocia si radica anche nella Guerra del Donbass, una guerra dimenticata da chi, oggi, pretende di voler risolvere i problemi inviando altre armi sul campo di battaglia. La politica di bilanciamento dell’Ucraina, divisa fra Russia e Nato (dalla quale ottiene ingenti finanziamenti) si infrange nel 2014, quando le città Donec’k e Luhans’k si proclamano repubbliche federate dello stato indipendente della Novorossyia (con referendum confermativo) cosa che scatena le rappresaglie durissime delle fazioni nazifasciste Svoboda, Pravyi Sektor, Spilna Prava, tra le altre. Le comunità russo-ucraine sono vittima di veri e propri pogrom. Il 2 maggio 2014, a Odessa, gli squadroni nazifascisti del battaglione Dnepr torturano, seviziano e uccidono decine e decine di manifestanti filo-russi. Una parte della Stampa Italiana ne parla, in quel momento, come di un incidente dovuto ai disordini tra filo-russi e sostenitori del governo di Kiev, ma questa è una chiara e colposa semplificazione, perché i video e le testimonianze sono incontrovertibili. Alcuni giornali occidentali arrivano addirittura a imputare l’incendio alle vittime, come per esempio l’Unità: “Un numero consistente di persone ha perso la vita nell’incendio della sede dei sindacati, messa a fuoco dai separatisti filorussi” (Daniele Scalea, La strage di Odessa e la stampa italiana: censura di guerra?, 5 luglio 2014).
E nonostante siano centinaia le prove a carico dei miliziani del Dnepr, perfino il Wall Street Journal offre immediato supporto mediatico al governo di Kiev, il cui rappresentante militare, Dmytro Jaros, afferma, senza pudore, che il massacro di Odessa è «un giorno luminoso della storia nazionale ucraina» [John Pilger, On Israel, Ukraine and the truth, «Counter Punch», 11 luglio 2014].

I MEDIA E LA COSTRUZIONE DELLA VERITÀ

Analizzare criticamente la realtà è una buona soluzione

«La strage di Odessa non è stata dunque un episodio isolato, ma il macabro preliminare della vera dimensione della tragedia ucraina. La conta dei morti nell’est s’impenna sulle centinaia di vittime, e si capisce bene che tipo di scontro stia avvenendo se si osserva chi è che muore. Si contano relativamente pochi morti fra i soldati di Kiev, e la maggior parte di questi è vittima di incidenti molto controversi causati dalle stesse forze armate, in apparenza “fuoco amico”. Gli altri morti, quelli che subiscono attacchi dal cielo, sono invece tanti, tantissimi, per lo più inermi cittadini russi dell’Ucraina orientale» scrive, invece, Pino Cabras il 28 maggio del 2014 (Ucraina: l’inizio della strage, in attesa di un Pinochet), perché il fatto è che la strage di Odessa nasce dall’assalto di gruppi di nazifascisti contro filorussi pacifici: «molotov contro l’edificio e spari a chi tenta la fuga» per sfuggire all’orrore delle fiamme (Simone Pieranni, La strage di Odessa, le bugie di Majdan, 9 maggio 2014). Ed ecco che diventa lampante, per chi vuole vederlo, che le questioni complesse sono troppo spesso ridotte a una semplice rimescolanza di informazioni. L’Occidente giustifica se stesso, ma la risposta occidentale alla crisi ucraina rispecchia un modus operandi mediatico ormai collaudato: «dalle immagini di nonne e giovani donne fotogeniche che imbracciano i kalashnikov per difendere l’Ucraina, alle storie (fabbricate) delle truppe ucraine che si sacrificano piuttosto che arrendersi, siamo bombardati da immagini unilaterali ed emotivamente avvincenti. Stiamo ancora una volta trattando i dissidenti e i critici come traditori e cattivi» [Sohrab Ahmari], ma in realtà, a ben vedere, non stiamo valutando dei fatti, stiamo avanzando delle pretese di comprensione basate sulla manipolazione mediatica delle informazioni, manipolazione che, fin dagli anni Venti, ha il solo scopo di giustificare le guerre e formulare, di volta in volta, il profilo del nemico da abbattere.

Bibliografia

  • Giacomo Gabellini, Ucraina una guerra per procura, Arianna Editrice, 2016.
  • Stanislas Asseyev, Donbass: Un journaliste de camp raconte, Atlande 2021.
  • Alessandro Lattanzio, Filippo Bovo, Massimiliano Greco, Battaglia per il Donbass, Anteo, 2014.
  • Silvio Marconi, Donbass. I neri fili della memoria rimossa, Croce Libreria, 2016.
  • Stefano Cavedagna, Andrea Farhat, La Guerra fredda non è mai finita. Geopolitica e strategia dopo il secolo americano, GoWare, 2018.
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