Se la tecnologia diventa un equilibrio tra l’oblio e l’identità; se le nuove narrazioni di genere si incardinano nella sconcertante ridefinizione di umano innestato nel robotico; se il tema dell’intelligenza artificiale (AI) diventa un compromesso tra l’etica stanziale e l’etica nomade, allora potremmo essere, tra le altre cose, nella ostentata rielaborazione del famoso (ma pressoché incompreso) anime diretto dal regista giapponese Mamoru Oshii: Ghost in the Shell, letteralmente «fantasma nella conchiglia», che in italiano potremmo più efficacemente tradurre con «spirito nel guscio».
Tra fantasmi e cyborg
Nella cultura nipponica il fantasma nasce quando il reikon (spirito/anima) entra in contatto con il mondo fisico diventando yūrei, un essere spirituale in grado di interagire emotivamente e – cosa ancora più interessante – mentalmente con il mondo dei viventi. Lo Shell, invece, oltre a richiamare l’idea di «guscio», propone chiari riferimenti al mondo informatico, dove è identificato come interfaccia di comando testuale utilizzata per accedere ai sistemi informatici. Ghost in the Shell in origine è un manga, semplificando un fumetto giapponese, di Masamune Shirow (pseudonimo di Masanori Ōta), un abile fumettista nipponico, classe anni Sessanta, appassionato di cultura cyberpunk, di futuri post apocalittici, di società ambigue e multiformi, dove anima e corpo si contraddicono; sanguinano, piangono e si infrangono ricomponendosi di assiemaggi mai uguali all’originale, mai tranquillizzanti.
Alle radici narrative del cyberpunk
Tuttavia la cultura cyberpunk non raggiunge il grande pubblico grazie alle visionarie chine di Shirow, bensì al romanzo dello scrittore americano William Gibson, Neuromante (1984), considerato unanimemente il Manifesto del genere proto-futuristico, a sua volta innestato (è proprio il caso di dirlo) nell’impianto teorico dello scrittore di fantascienza Bruce Bethke, cui si deve l’invenzione del termine cyberpunk, titolo del suo racconto pubblicato nel 1983, e riecheggiato nelle storie in serie di Michael Bruce Sterling, che contribuisce con i suoi racconti a definire gli orizzonti antropologici del nuovo genere e di un gruppo di scrittori poi noti come artisti del Mirrorshades Movement, appellativo che si rifà a un dettaglio frequente nelle descrizioni dei personaggi da sub urbe cyberpunk: gli occhiali a specchio.
A tal proposito: chi non ricorda le lenti specchianti di Morpheus (Laurence Fishburne), il capitano dell’hovercraft Nabucodonosor che libera il Ghost di Neo (Keanu Reeves) dallo Shell in cui Matrix, sofisticato complesso di intelligenza artificiale e realtà virtuale, costringe tutti gli esseri umani al fine di produrre energia per le Macchine? In effetti Matrix, il fortunato film di fantascienza in salsa cyberpunk del 1999 scritto e diretto da Andy e Larry Wachowski, è uno degli eredi nobili della filosofia del Ghost in the Shell.
Tra vicoli privi di cielo
Nei meandri narrativi in tinta cyberpunk, il cupo gotico romanzesco si nutre di scienze avanzate, information technology, e di cibernetica. Negli annebbiamenti al neon di vicoli privi di cielo e drogati di rendering, le tecnologie di basso consumo e gli innesti potenzianti hi-tech rilasciati dalle big della produzione pop consumistica, si mescolano alla disperazione di civiltà corrotte, multi livellate su strati contigui di erosione sociale, che rispecchiano la crescente perdita di identità umana da parte dei personaggi che popolano tanto i racconti di Gibson quanto i manga giapponesi che ne seguono. Non per niente la Terra del Sol levante sembra essere prediletta in questo tipo di storie, forse per le sue contraddizioni, l’iper-realismo tecnologico, lo sfacelo del tempo e dello spazio dell’esistenza umana in favore di accelerazioni produttive disumanizzanti, in contrasto con il profondo – e sempre più sofferente – legame con la tradizione, con la memoria.
Ghost in the shell ha toccato talmente in profondità la fantasia dei lettori, da diventare rapidamente un media franchise, un prodotto commerciale il cui marchio è stato sfruttato in tutti i canali dell’intrattenimento: serie televisive, videogiochi, fiction, film. L’ultimo live-action, quello del 2017 del regista Rupert Sanders, interpretato dall’attrice statunitense Scarlett Johansson, nota al grande pubblico per aver recitato in modo seriale il personaggio di Vedova Nera nei film blockbuster della Marvel, ha fatto rivivere le atmosfere estreme del fumetto, pur occhieggiando al pubblico dei più giovani, con una semplificazione della filosofia di fondo.
Ghost in the Shell: filosofia di frontiera
Ma qual è la filosofia di Ghost in the Shell? Perché perfino il cyber femminismo post antropico ne ha tratto spunti efficaci e “commercialmente” potenti? Il Manifesto Cyborg della filosofa femminista Donna Haraway (A Cyborg Manifesto: Science, Technology, and Socialist-Feminism in the Late Twentieth Century, 1985) mette in discussione il rapporto fra genere, identità e tecnologia «Essere Cyborg anziché dea», potersi costruire (e ricostruire) un’identità, invece di vivere su coordinate prestabilite, liberarsi dal concetto di femminile e maschile; liberarsi dalla presenza dell’Io, farne semplicemente a meno, annullando la fissità e scivolando, sempre più rapidamente, nella liquidità di una creazione perenne dell’individuo. Insomma, la produttiva interazione tra il potenziale rivoluzionario della tecnologia e la non umanità post moderna. La Haraway coglie l’energia rivoluzionaria della nascente cultura cyberpunk e inizia un dialogo ideologico che fonda il filone più estremo e cyber del femminismo moderno, inaugurando l’epoca della «soggettività cyborg» in chiave di rivoluzione sessuale. Del resto, dall’affascinante Blade Runner (1982), agli psicotici body horror di David Cronenberg, passando per Johnny Mnemonic (1995), filosofia e immagini si ingarbugliano come fili elettrici; la filosofia della disumanizzazione scorre nelle sue tre principali arterie narrative – la particolare ambientazione, il cyborg e il cyberspazio – e sfama la sensibilità cyberpunk. Ma tra cinici antieroi ed egotismi perversi, resta la domanda: cosa è naturale e cosa non lo è? Chi vigila sul confine?
Tra corpo e anima
Ghost in the Shell sembrerebbe essere proprio incentrato (il condizionale è sempre d’obbligo con i manga, in cui il dubbio interpretativo è cuore artistico) su un dilemma tra significato, interpretazione e distanza tra i due: se la tecnologia sostituisce ciò che rende umano un corpo, l’anima che fine fa? Diventa uno spirito prigioniero in un guscio incapace di interagire individualmente con gli altri, oppure può ancora liberare il suo potenziale umano, ciò che lo definisce realtà se posto innanzi alla virtualità e all’artificio tecnologico? La risposta sembra condurre al passato, ai ricordi e al legame con la fonte della vita, la madre della protagonista in particolare, che sembrano essere la «via della saggezza», l’equilibrio tra le parti. E qui torna la memoria.
La protagonista della storia – Motoko Kusanagi, il maggiore a capo degli agenti della Sezione 6 – unità di investigazione, sorveglianza e intervento – è una donna ibrida, con un corpo completamente robotizzato e il cervello umano; ricostruzione frutto di esperimenti ripetuti su più esseri umani, ai quali lei sola sopravvive, divenendo una sorta di chimera tecnologica, una creatura cyberpunk con un’anima che vive un drammatico e continuo spasmo tra la paura della morte e il terrore di perdere del tutto la propria identità residua. Nel suo mondo, la fantascienza e l’incastro informatica-criminalità sono pervasi di distopia politica, la cui autorità si sfama non più di consenso elettivo, ma di informazioni. Sono le informazioni che formano la scala di valori su cui ogni decisione viene presa.
Tra abisso e memoria
I cyborg – intesi come ibridi tra umano e robotico – sono comunque parte del tessuto sociale; chiunque può sostituire il proprio corpo biologico con parti bio-meccaniche, preservando – forse – la coscienza, che a quel punto può accedere a una rete comune. Una iperconnettività perenne, non controllabile, sicuramente manipolabile, con un labile confine tra il legale e l’illegale a fare da disarmato argine carente di etica. Ghost in the Shell, sfruttato negli anni da chi vorrebbe diluire le identità nella fluidità del divenire, pone accenti allarmistici proprio sul rischio che oggi viene volutamente appannato: in un mondo di identità virtuali, di coscienze disperse nella Rete (Ghost in the Shell definisce la Rete come «l’enorme distesa di dati che forma la coscienza cibernetica degli individui») e intelligenze artificiali che stanno imparando a fare gli uomini dove ha sede l’umano?
Ancora una volta il racconto risponde: nella memoria. È proprio uno degli hacker più pericolosi del racconto, il Burattinaio, che apre al concetto di identità nella memoria: «La specie umana utilizza un sistema di memoria chiamato “geni”, e acquisisce la propria individualità dai ricordi che racchiude. Anche ponendo che tali memorie possano essere paragonate a “illusioni”, è comunque grazie ai ricordi che esiste l’umanità. Quando la diffusione dei computer rese possibile asportare la memoria, avreste dovuto pensare molto più seriamente a ciò che avrebbe significato».
Un monito non da poco.
[Già apparso sulla rivista culturale/letteraria www.lidenbrock.org]
Bibliografia
- William Gibson, Neuromante, Editrice Nord, collana “I Libri-Mito”, marzo 2000.
- Bruce Bethke, Cyberpunk , 1983.
- Donna Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli.
- Claudio Cordella, Mulini a vento e robot giganti. Il significato degli oggetti negli anime e nei manga, Delos Digital, 2018.
- Masamune Shirow, Ghost in the Shell, Star Comics edizioni.
Filmografia
- Ghost in the Shell (1995, regia di Mamoru Oshii).
- Ghost in the Shell (2017, regia di Rupert Sanders).
- Ghost in the Shell: Stand Alone Complex (2002, regia di Kenji Kamiyama).
- Ghost in the Shell: Stand Alone Complex (2004, regia di Kenji Kamiyama).
- Matrix (The Matrix), 1999 scritto e diretto da Andy e Larry Wachowski.