Oggi non facciamo alcuna fatica a immaginare comunicazioni veloci, collegamenti sinaptici oltre il limite del sopportabile, computer in tutte le case, cellulari connessi 24 ore su 24 con il mondo digitale, virtuale, aumentato o no. Quello che William Gibson ha scritto trent’anni fa nel suo romanzo capolavoro ‘Neuromante’, oggi è normale.
Sì, perché nel 1984, Gibson, seguendo al passo Ballard, Burroughs e Dick, scriveva già di Internet, di Assange, di Snowden, e manifestava le più profonde e tragiche preoccupazioni per quella tecnologia che oggi – è un dato di fatto – condiziona la nostra quotidianità.
Sono passati trent’anni da quando il Neuromante ha iniziato a implodere nel cuore della fantascienza per esplodere in una corrente letteraria (e non solo letteraria): il cyberpunk, genere letterario che vanta nel suo albero genealogico Aldous Huxley e George Orwell, James Ballard e soprattutto di Philip K. Dick.
«William Gibson – figlio di un imprenditore statunitense che aveva lavorato nel presidio militare dove nacque il progetto Manhattan – si era trasferito in Canada per sfuggire alla guerra del Vietnam, e da Vancouver provava a farsi largo come autore di racconti». Gibson ha letto molta fantascienza da ragazzo, ma da questa si distacca grazie a un’intuizione straordinaria: proiettare incubi e speranze sulla superficie digitale, il collegamento non è più l’iperspazio, ma il modem.
Mentre George Orwell (di cui Gibson è appassionato) trasfigura in 1984 i totalitarismi della prima metà del secolo in un’accorta e clamorosa distopia politico sociale, Gibson codifica le urgenze sociali in forma digitalizzata, la narrativa diventa espressione di una mutazione tecnologica, di un mondo popolato da pirati informatici, microtossine sinaptiche, innesti meccanici, modifiche genetiche, in quel cyberspazio che l’autore definisce nel suo romanzo «un’allucinazione vissuta consensualmente. Una rappresentazione grafica di dati ricavati dai banchi di ogni computer del sistema umano. Linee di luce allineate nel non-spazio della mente. Come le luci di una città, che si allontanano».
Gibson ha aperto un mondo a tutti quegli scrittori desiderosi di dare una nuova dimensione alla fantascienza, scrittori cyberpunk che hanno trasposto sullo scacchiere digitale il mondo reale, nel gioco letterario di una realtà aumentata che ha inventato il World Wide Web prima che qualcuno inventasse il World Wide Web, ma con un monito intenso e pulsante: se economia, finanza, politica e reti telematiche si intrecceranno, fino ad annullare l’essere umano, che ne sarà dei corpi di carne, del sangue, delle emozioni? Che ne sarà dell’anima? Il potere ammonitore della letteratura di Gibson risuona ancora oggi, in tutti i suoi ‘figli’ letterari, guide letterarie nel transito impazzito dal mondo reale a quello virtuale.
«Tutti rimanemmo ammirati. Soltanto una ragazza – capelli viola e Neuromante sulle ginocchia – alzò la mano e chiese: “mi scusi, ma vi pagano il 30% di più?”. “No”. “Lavorate il 30% di meno?” “Al contrario”, rispose il funzionario. “E allora”, concluse la ragazza con un sorriso di disprezzo, “qualcuno, da qualche parte” (laggiù, nel cyberspazio) “vi sta fregando senza che ve ne accorgiate”.
William Gibson, Neuromante, Penguin; Reissue edizione (15 agosto 1986).
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