La questione Sudan – da L’Indipendente

Martedì 17 Aprile 2023

Da sabato mattina in Sudan sono in atto duri combattimenti tra le due fazioni militari che – di fatto – da alcuni mesi si contendono il controllo del Paese: l’esercito regolare, da un lato, comandato dal generale e capo del Consiglio sovrano del Sudan, Abdel Fattah al-Burhan, e il comandante delle Rapid Support Forces (RSF), Mohamed Hamdan Degalo, detto Hemedti, vice di al-Burhan, dall’altro. Le RSF sono un potente gruppo paramilitare autonomo fondato nel 2013 sotto il regime del dittatore Omar al-Bashir, destituito nel 2019 in seguito alla rivoluzione della società civile sudanese che invocava una transizione democratica, ancora oggi però in stallo dopo il golpe del 2021 e gli attuali disordini che attraversano il Paese. Il grosso dei combattimenti si sta svolgendo nella capitale Khartum, ma si sono estesi a numerose altre città del Paese, tra cui la città di Port Sudan, sul mar Rosso. Entrambe le fazioni rivali sostengono di avere il controllo del palazzo presidenziale e dell’aeroporto, ma la situazione sul campo è ancora molto confusa ed è difficile dire chi abbia, al momento, il controllo del Paese. I due gruppi si accusano reciprocamente di aver attaccato le rispettive basi militari: l’esercito sudanese ha dichiarato che i paramilitari hanno attaccato le sue basi a Khartum e altrove, poco dopo che le milizie di Degalo avevano denunciato che i loro campi erano stati attaccati dall’esercito regolare. In particolare, le RSF hanno accusato l’esercito di aver attaccato una loro base nella capitale. Oggi si sono intensificati gli scontri nella capitale ed è stato chiuso lo spazio aereo.

LE VITTIME

Secondo quanto dichiarato su Twitter dal Comitato centrale dei medici sudanesi, è di 56 il numero di persone uccise negli scontri, nel frattempo salito a 100, mentre si registrano 595 feriti. La preoccupazione della comunità internazionale è che i combattimenti possano tramutarsi in una guerra civile, con importanti conseguenze non solo sulla regione, ma anche per l’Europa e i contendenti geopolitici dell’area. Il Sudan si trova immediatamente a sud dell’Egitto ed è un Paese strategico per quanto riguarda la questione migratoria, essendo uno dei principali punti di partenza dei flussi di persone che dall’Africa Subsahariana arrivano alla Libia per poi imbarcarsi nel Mediterraneo. Un possibile prolungarsi delle violenze potrebbe, dunque, incrementare i flussi migratori destabilizzando ulteriormente l’area ed esponendo l’Europa a sbarchi sempre più massicci. Anche in questa chiave va letto l’appello del governo italiano, dell’ONU, dell’Unione africana e della UE a cessare i combattimenti. In particolare, il governo italiano ha dichiarato che «si unisce agli appelli ONU, UA e UE perché cessino i combattimenti a Khartum e altrove, per la sicurezza del popolo sudanese e per risparmiare ulteriori violenze. Invita quindi le parti in causa ad abbandonare la via delle armi, e a riprendere i negoziati avviati da tempo, affinché il popolo sudanese esprima le proprie scelte nell’ambito di un processo elettorale».

INSTABILITÀ POLITICA

L’estrema instabilità politica sudanese ha origine nella rivoluzione del 2019, quando la mobilitazione di massa della società civile sudanese ha portato alla rimozione dall’incarico di Omar al-Bashir, segnando la fine di uno dei regimi al potere più longevi in ​​Africa. La sua destituzione doveva segnare l’inizio di una transizione democratica sostenuta dagli Stati Uniti e dall’Unione europea che, tuttavia, non si è mai realmente concretizzata, in quanto il governo del premier Abdollah Hamdok – succeduto a al-Bashir – era caratterizzato da forti tensioni tra gruppi civili e militari, quest’ultimi in buona parte ancora fedeli al regime precedente. Hamdok, con una spiccata propensione filoccidentale – dopo il suo insediamento, per la prima volta gli Stati Uniti hanno rimosso il Sudan dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo e sono state riaperte le rispettive ambasciate nei due Paesi – aveva promosso un progetto di riforma dell’esercito per epurare i militari rimasti fedeli all’ex regime e velocizzare così i progetti di riforma ostacolati da quest’ultimi, in particolare dalle RSF, restie ad essere integrate nell’esercito regolare e a cedere parte del loro enorme potere economico e politico. Le RSF sono la derivazione diretta dei Janjawid, i miliziani di etnia araba, guidati da Degalo, fedeli al regime di Omar al Bashir che nel corso della guerra nella regione del Darfur, cominciata nel 2003, furono accusati di genocidio. Così, poco dopo l’annuncio della riforma dell’esercito, il 25 ottobre 2021 è avvenuto il golpe per mano dei militari e il generale al-Burhan ha preso il potere interrompendo la “transizione democratica”. In quella circostanza, il generale ha unito le forze col comandante delle RSF, Degalo, per rovesciare il governo civile: da quel momento, il Paese è governato da una giunta militare chiamata Consiglio Sovrano, di cui al-Burhan è il capo e Dagalo il secondo in comando.

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