«L’Italia possiede nel Cunto de li Cunti del Basile, il più antico, il più ricco e il più artistico fra tutti i libri di fiabe popolari.» Così Benedetto Croce definì il «Boccaccio Napoletano», Giambattista Basile: scrittore unico nel suo genere per il Seicento italiano. Dalla penna e dall’immenso estro letterario e linguistico dell’autore da una parte, e dall’osservazione meticolosa della realtà e dei racconti popolari del suo tempo, il suo capolavoro multi fiabesco in antico dialetto napoletano, «Lo Cunto de li Cunti», o «Pentamerone», è da sempre uno dei principali punti di riferimento scritti della più classica tradizione italiana della Fiaba. La sua Opera, insieme a quella del Boccaccio e soprattutto di Gianfrancesco Straparola, è tra le più antiche e importanti del nostro patrimonio letterario nazionale, e la sua rilevanza è tale, da essere riuscita persino ad influenzare il lavoro di altri illustri raccoglitori, rielaboratori e scrittori di fiabe del Continente, tra i quali i tedeschi Grimm.
Il capolavoro di Basile, apparso postumo, fu pubblicato tra il 1634 e il 1636 in napoletano, col titolo di Lo Cunto de li Cunti overo Lo trattenemiento de’peccerille ed è arrivato sino a noi come Pentamerone ossia La fiaba delle fiabe, nella traduzione in italiano di Benedetto Croce, grande estimatore dell’opera, a sottolineare espressamente le vicinanze col Decamerone nel suo impianto narrativo. Tale che fruttò, tra l’altro a Basile, l’appellativo di “Boccaccio napoletano”. Il testo raccoglie infatti 50 favole incastonate su una cornice, raccontate nell’arco di cinque giorni da dieci donne anziane, dai suggestivi nomi di Tolla nasuta, Popa gobba, Antonella bavosa o Zeza Sciancata.
Lungi dalla registrazione passiva di materiali folclorici, Basile attinge al vasto repertorio della tradizione napoletana orale, con giocosa originalità. Colloca la realtà popolare e locale entro le coordinate spazio-temporali del mondo fiabesco, dove c’è uno slittamento continuo dal piano dell’ordinario a quello dello straordinario e del fantastico, ottenendo un risultato a metà tra letteratura alta e letteratura popolare. Si capiscono, allora, entro questa prospettiva, le metamorfosi, frequenti, degli uomini in animali, delle bestie in esseri inanimati, in un gioco combinatorio divertito e divertente.
Calvino, nel saggio “Sulla fiaba”, proseguendo il lavoro di Croce, offre un breve, ma esaustivo inventario delle metafore che costellano il mondo basiliano. L’alba insorge “quando al mattino la Luna, maestra delle ombre, concede feria alle discepole per la festa del Sole”, oppure “quando le ombre della Notte, perseguitate dagli sbirri del Sole, sfrattano il paese” (Calvino, Sulla Fiaba, Milano 1995, pg.130). Immancabili le metafore relative ai tramonti e agli annottamenti, come “quando la Luna, come chioccia, chiama le stelle a beccare le rugiade” o “quando la Notte distese per il cielo le sue nere vesti per arieggiarle e preservarle dai tarli” . L’opposizione luce-buio investe tutto l’universo narrativo del Pentamerone. Il campo metaforico della notte s’identifica, in generale, con la bruttezza, la nerezza, la morte, l’erotismo ed il desiderio sessuale. Al contrario, il campo solare ingloba il polo semantico della bellezza, della chiarezza cromatica, della trasparenza dei sentimenti.
Il Pentamerone, sottotitolato “trattenimento de’ peccerrille”, genera ambiguità circa l’identità dei destinatari. L’opera, infatti, non fu composta per i bambini, “come alcuni, e tra questi il Grimm, hanno creduto, prendendo alla lettera il titolo giocoso,” ma per rispondere alle esigenze dei lettori adulti, in particolare “per uomini letterati ed esperti e navigati, che sapevano intendere e gustare le cose complicate e ingegnose” (B. Croce). Nato, dunque, per essere recitato, durante la conversazione barocca, raffinata forma di intrattenimento che comprendeva anche azioni teatrali, facezie, balli, narrazioni.
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